Estetica Zen

Capitolo terzo

ESTETICA ZEN

Oggetto e scopo dell’arte Buddhista è mettere l’uomo in contatto con la natura di Buddha; ma se per il Buddhismo tradizionale esistono forme codificate che possono incarnare, definire tale natura, non si può dire altrettanto per il Buddhismo Zen, che, ritenendo che la vera natura del Buddha sia informe ed ineffabile, non ha mai definito alcuna regola per l’espressione artistica, limitandosi a presentare solo due condizioni: la prima è che questo vuoto senza forma, poiché onnipresente, vada ricercato innanzitutto dentro noi stessi e nelle più elementari attività quotidiane; la seconda è che qualsiasi oggetto artistico non venga ritenuto possedere un valore in sé, legato alle sue qualità visibili, ma solo (cosa impossibile per qualsiasi appassionato di arte!) per ciò che sta oltre esso, cioè per il processo creativo che lo ha generato e per la verità che riesce a far intuire allo spettatore[1].

In base a questa funzione euristica dell’arte possiamo fare due considerazioni: la prima è che si può parlare di pittura Zen ogni qualvolta il contenuto dell’opera sia una visione illuminata dell’esistenza[2], che ci aiuti in qualche modo a comprendere come la realtà vera risieda sia nell’apparenza dei fenomeni che oltre essa, sotto la consueta e a tutti visibile superficie delle cose; la seconda è che sarà sempre impossibile esaurire con una spiegazione, un’analisi o una classificazione ciò che un’opera d’arte Zen intende trasmettere, e che potremo quindi solo limitarci a descrivere ciò che vediamo, osservando bene e a lungo, e comunicare agli altri tutte le immagini, poesie, attimi che quella visione suscita in noi, aspettando che la sua vera essenza si lasci percepire.

“La vita senza scopo è il tema costante di ogni tipo di arte Zen, esprimente la condizione interiore dell’artista che va chissà dove, in un tempo senza tempo. Tutti gli uomini hanno, occasionalmente, di questi attimi; ed è proprio in tali circostanze che essi afferrano quella visione fuggevole e intensa del mondo, che getta un bagliore così vivo sui deserti della memoria: l’odore di foglie bruciate in un brumoso mattino d’autunno, un volo di colombi assolati sullo sfondo di una nube temporalesca, il suono di un’invisibile cascata al crepuscolo, o il grido solingo di un uccello indistinto nel cuore di una foresta. Nell’arte dello Zen ogni paesaggio, ogni schizzo di un bambù nel vento o di rocce desolate, è una eco di tali momenti.”[3]

Con queste parole Alan Watts sintetizza ciò che la filosofia Zen intende rendere visibile per mezzo dell’arte, cioè un sentimento, nei confronti della vita e dell’universo, che non potrebbe essere espresso con un discorso logico neppure dal più sensibile dei letterati, poiché, essendo l’eco dell’illuminazione, intuizione del tutto irrazionale ed involontaria che accade in un attimo, è assolutamente impossibile da descrivere con precisione: l’unica cosa che un uomo dotato di profondità e talento può fare è, per mezzo di strumenti che possano rendere partecipe anche l’inconscio come la pittura, un giardino, lo haiku, una performance teatrale, le composizioni floreali o anche solo tramite dei gesti, tentare di comunicare agli altri le forme esteriori che hanno generato in lui tale sensazione, sperando che la magia possa ripetersi.

Si tratta dello stesso metodo alla base dello zazen[4] e dell’esercizio kōan[5], strumenti con cui i maestri dello Zen tentano di fare giungere i discepoli all’illuminazione. La condizione fondamentale, imprescindibile per definire un’esperienza o la creazione di qualsiasi oggetto d’arte come Zen, è che l’esecuzione avvenga in totale assenza di volontà, poiché l’illuminazione non brillerà mai nella nostra mente finché essa è occupata da pensieri e desideri: bisogna essere completamente vuoti affinché l’essenza profonda delle cose si manifesti; in questo senso bisogna intendere l’espressione “vita senza scopo”, che sta ad indicare la condizione spensierata e libera di chi ha raggiunto il mu-shin, la non-mente, l’incoscienza di sé.

In giapponese esistono alcune parole chiave, riferite a ciò che si prova nei momenti in cui ci avviciniamo ai misteri dell’universo, che costituiscono alcuni dei principi dell’estetica Zen, e che sono intraducibili con un sinonimo nelle lingue occidentali, soprattutto perché non riescono ad evocare nel nostro immaginario tutta la ricchezza di visioni e sentimenti che suscitano invece in ogni abitante del paese del sol levante.

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[1] Cfr. Shin’ichi Hisamatsu Arte ed opera d’arte nel Buddhismo Zen, conferenza tenuta il 19/05/1958 presso l’università di Friburgo, dove insegnava Heidegger. Il testo della conferenza si può trovare nel libro di Shin’ichi Hisamatsu Zen and fine arts, ed Kōdansha int., Tokyo, 1971, ma anche su molti siti internet; personalmente l’ho letto sui siti: http://www.htokai.ac.jp/DA/hvass/seminar99/zen_aesthetics/zen_hisamatsu.html e

http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/hisamatsu.htm

[2] Cfr. Eugene Herrigel La via dello Zen, cit., pag.45

[3] Alan W. Watts La via dello Zen, cit. pag. 194

[4] Lo zazen, termine che significa “seduti semplicemente” (attenzione: come spiega il maestro Tetsugen Serra nel libro intitolato Zen, ed. Fabbri, Milano, 2005, bisogna tradurre “seduti semplicemente” e non “semplicemente seduti”, perché semplicemente è avverbio riferito al modo in cui dobbiamo stare seduti, ed ha il preciso significato di senza scopo, senza desideri), altro non è che la meditazione come la intende lo Zen, cioè un certo periodo di tempo, la cui durata varia a seconda dell’allenamento, in cui ci esercitiamo a mantenere il nostro corpo fermo in posizione corretta, il nostro respiro secondo un andamento ritmico regolare, e la nostra mente ben concentrata e completamente sgombera da qualsiasi pensiero. Durante questo tempo in cui solo il vuoto è dentro di noi, poiché siamo riusciti ad abbandonare il consueto flusso dei nostri pensieri, l’illuminazione potrebbe accadere. Esiste anche un tipo di meditazione camminata, chiamata kinhin, utilizzata come intermezzo per portare ristoro al corpo durante lunghe sedute di zazen ma anche come modo per esercitarsi a mantenere lo stato di concentrazione, calma e serenità pur con il corpo in movimento.

[5] Letteralmente kōan significa “documento”, “atto pubblico”. Si tratta di una serie di quesiti, dialoghi, affermazioni che il discepolo dovrà risolvere o spiegare meditandovi (in senso Zen) a lungo, poiché nessuna risposta logica o razionale verrà accettata dal maestro; alcuni esempi, molto famosi, possono essere “perché Bodhidharma venne dall’Occidente?” o “un monaco chiese a Tung Shan: -qual è la natura di Buddha?- ed egli rispose: -tre libbre di lino!-” oppure “sentite il suono di una mano sola.”. Non esiste un’unica risposta, ne esistono invece molte di sbagliate, cioè tutte quelle che si attengano alla parola e al mondo degli uomini senza riuscire a vedere oltre: per essere accettata la risposta deve far capire al maestro che l’allievo ha ragionato in senso Zen, cioè senza ragionare ma essendosi liberato da ogni vincolo con il sé e con la materialità. Solo avendo esaurito ogni altra risorsa e lasciando finalmente entrare il vuoto in noi otterremo come un lampo una risposta appropriata. Si dice che uno studente debba risolvere ben 1700 kōan prima di diventare un maestro. Questo tipo di esercizio rappresenta sotto un certo aspetto il deterioramento dell’originale disciplina esoterica Zen, poiché si tratta dello sviluppo sistematico, divenuto necessario in seguito alla grande diffusione di questa scuola, di una cosa che in origine il rapporto maestro-allievo produceva spontaneamente: all’inizio della storia dello Zen erano gli allievi ad interrogare il maestro, il quale, poichè li conosceva tutti personalmente molto bene, riusciva a capire dalla domanda quale era il grado di meditazione da essi raggiunto e di che tipo di risposta avessero bisogno per raggiungere il satori; così egli rispondeva, improvvisando, ad ognuno a dovere, sempre in un modo assolutamente spiazzante ed irrazionale che portasse l’allievo ad una nuova meditazione. Queste domande e risposte in giapponese si chiamano mondo, e stanno alla base di quasi tutti i moderni kōan. (cfr. D. T. Suzuki Saggi sul Buddhismo Zen, cit., volume secondo).


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