Secondo passaggio: superare ogni dualismo

Il termine dualismo ha un preciso significato filosofico. Secondo il dizionario redatto per Le Monnier da Lamanna e Adorno ci troviamo davanti ad esso quando incontriamo “posizioni che ammettono due principi primi irriducibili o due piani di realtà sia in senso metafisico (idee e materia, Platone, Cartesio) sia in senso conoscitivo (realtà e pensiero, Kant) sia in senso morale o religioso (bene e male, Zoroastro, manicheismo)”[1]. Ancora, con le parole di Walter Brugger “il dualismo rivendica contro il monismo l’opposizione essenziale che c’è nella realtà tra l’essere contingente e quello assoluto (il mondo e dio) e nel campo del contingente tra conoscere ed essere, materia e spirito, essere e azione, sostanza e accidente ecc…”[2].

Secondo le filosofie orientali questo modo di indagare la realtà non ha senso di esistere: non può esserci alcun tipo di dualismo poiché tutto quanto è riconducibile al vuoto, da esso trae origine ed in esso ritorna, il vuoto è l’unica grande verità. Superare ogni dualismo è il gradino successivo alla perdita del sé in quanto ci porta ad estendere il concetto di vuoto come base di tutte le cose da noi stessi al mondo, e poi ancora dal mondo all’universo fino ad abbracciare la totalità del tutto.

Il sutra del cuore, composto in India intorno al IV sec d.C., è uno dei testi fondamentali del Buddhismo e si chiama così perché condensa in un breve dialogo tra Avalokitesvara (bodhisattva della compassione) e Sariputra (discepolo storico di Gotama Buddha) quello che è il cuore, il nocciolo, l’essenza della visione profonda della verità:

“ Puro sentire,che attinge al cuore di tutte le cose,

Avalokita,

affiso nell’intuizione perfetta,

vede fluttuare disciolte

le cinque mutevoli

soglie dell’io,

e recide la pena

che tutti accomuna.

Oh Sariputra,

ogni fenomeno affiora

dall’insondabile abisso,

che cela e trascende gli opposti:

la Vacuità.

La forma è vuoto,

il vuoto è forma,

ininterrotte, nella vastità cangiante,

trapassano le sensazioni,

le percezioni, le nostre

interiori reazioni,

e l’ampio dominio chiamato

coscienza dell’ego.

Oh Sariputra,

non ha consistenza

la serie infinita di tutte le cose,

non esistono nascita

e dissoluzione,

non c’è purezza né macchia,

né crescita, né diminuzione.

E dunque, nel vuoto,

insostanziale è ogni forma,

ogni interno richiamo

della mente e dei sensi,

ogni moto attivato

dalla volontà

e dalla coscienza evocato.

Illusorio è lo specchio dei sensi,

gli occhi, la lingua, il naso, le orecchie,

il corpo e la mente,

non possiede vita a sé stante

l’aspetto o il sapore,

il suono o l’odore,

il tatto o l’oggetto mentale.

Se dunque è apparente ogni cosa

e senza una propria sostanza,

non c’è da pensare che esista ignoranza

o di essa possibile fine,

e vecchiaia è illusione e la morte,

come pure la loro estinzione.

Ma se pur non c’è causa di pena,

non cessa la pena del mondo,

nè val, per estinguerla, Nobile Via,

perchè vuoto è ogni conseguimento

o completa rinuncia alla quale approdare.

Così, l’essere emerso dal buio,

compenetrato della Visione Profonda,

non ha il cuore e la mente ostruiti,

non alberga paura,

e sciolto da ogni illusorio richiamo

può riconoscersi libero, infine.

E chi, nell’immoto fluire del tempo,

si è aperto al puro sentire,

affidato alla Prajna Paramita,[3]

realizza il supremo risveglio.

Conosci ora il cuore della Visione Profonda”[4] .

In Occidente viviamo di dualismo: bene e male, finito ed infinito, ragione e sentimento, bello e brutto, uomo e natura, sé ed altro ecc… Questa visione delle cose porta inevitabilmente ad una lacerazione interiore, ad un senso di solitudine, indecisione, incompiutezza, ad una lotta continua.

Anche in Oriente esistono i concetti di bene e male ecc.. ma non sono mai “puri” né così nettamente contrapposti , non creano conflitti ma sono semplicemente forme, espressioni diverse dell’unico grande vuoto cosmico. Il famoso tao, simbolo ormai presente ovunque e conosciuto da tutti, esprime graficamente come non esistano mai cose solo bianche o solo nere e come tutto, essendo unico, si possa bilanciare armoniosamente.

La pittura di paesaggio ad inchiostro è considerata dallo Zen uno strumento assai prezioso per raggiungere l’illuminazione poiché essa non mira a riprodurre la realtà, bensì ad eliminare la distanza tra l’uomo e ciò che lo circonda facendo entrare totalmente sia lo spettatore che il pittore nell’illusione della natura, aiutandoli a perdere sé stessi nelle continue metamorfosi del vuoto senza forma.

Approfondirò meglio questo argomento nei capitoli successivi, per ora mi limiterò ad utilizzare l’esempio della diversità nel rapporto tra uomo e natura in Oriente e Occidente per meglio chiarire cosa si intende praticamente per “dualismo”.

Uno dei tanti modi in cui nella cultura orientale si manifesta il carattere non-dualistico risiede nel modo di porsi nei confronti della natura che possiamo desumere, tra le altre cose, anche dalle opere d’arte. Secondo J. Cahil la “pittura poetica” è un’espressione artistica che riesce a suscitare in chi guarda sensazioni profonde ed intense per mezzo di immagini semplici che parlano direttamente al cuore [5] . Egli ne parla riferendosi alla generazione di artisti che fiorì in Cina durante il regno dei Song meridionali. La loro abilità fondamentale era di riuscire ad annullare il proprio io per identificarsi nella natura inconsciamente, senza ricorso alla mente speculativa: riunire in un solo corpo il cielo, la terra e i “diecimila esseri”; sentirsi parte di un tutto in cui non esistono distinzioni; interiorizzare l’armonia e poterla rispecchiare poiché dentro si è vuoti, lisci, rotondi. Per realizzare le loro opere vivevano isolati a stretto contatto con la natura, non come eremiti o scienziati ma come pacifici contemplatori.

Questo sentire è pressoché sconosciuto alla cultura occidentale: il nostro punto di vista è in ogni caso antropocentrico e siamo da sempre abituati a pensare che le cose, come ad esempio uomo, natura e dio, siano entità completamente diverse, distinte, lontane tra loro.

Rimanendo in ambito specificamente artistico si può affermare (forse con qualche eccezione per quanto riguarda l’arte contemporanea) che la pittura, per noi occidentali, è sempre un’imitazione della natura, un prodotto dell’eccellenza della ragione e dell’abilità dell’uomo: la radice di questo modo di pensare è antichissima e va ricercata nella filosofia, nella religione, negli archetipi dualistici che costituiscono la nostra cultura. Partendo dal mondo classico ad esempio, l’unico ideale di vita ritirata nella natura è quello dell’Arcadia, esistenza che scorre operativa ma anche lenta ed oziosa in mezzo ad una natura ordinata dall’uomo, pacifico mondo agricolo perfettamente addomesticato dalla ragione. Tutto il resto è Dioniso, caos orrore, menadi impazzite che vagano per i monti in preda a raptus. Andando avanti nei secoli , anche se esisteranno casi di vita ritirata come ad esempio gli eremiti, il loro isolarsi è dettato dalla ricerca di qualcosa e non elimina la contrapposizione fortissima tra uomo e natura. Cartesio divide il mondo in res extensa, mondo naturale, universo puramente meccanico, e res cogitans cioè uomo e suo intelletto. L’Idealismo Romantico arriverà a conferire alla natura caratteristiche umane dotandola di un’anima in grado di partecipare ai sentimenti dell’uomo, ma solo inconsciamente (natura = preistoria della conoscenza). L’Estetica del Sublime comincia a fare apprezzare anche la parte oscura del mondo oltre a quella razionalmente armoniosa e misurata, ma il discrimine rimane sempre l’intelletto: l’erlebenis, esperienza diretta della natura selvaggia, muove l’animo dell’uomo a sentimenti forti di inquietudine romantica, dilettoso orrore, smarrimento dell’animo di fronte all’infinitamente grande e potente, struggimento ecc… ma tutto questo non fa altro che aumentare la percezione della grandezza della mente umana, la presunzione che le cose esistano solo perché siamo in grado di pensarle. Perfino Nietzsche che è considerato il più “arazionale” ed “orientaleggiante” tra i nostri pensatori, anche quando ci parla di un ritorno alla terra e di una vittoria dello spirito dionisiaco sulla ragione, pone sempre questa nuova visione e conoscenza del mondo nelle mani di un essere principalmente razionale, che chiama superuomo.

In Oriente si parte da presupposti completamente diversi, l’uomo non è diverso né più importante di una roccia o di un bambù solo perché pensa. Il possedere questa facoltà forse lo rende semplicemente un po’ più fortunato. Tutti gli esseri partecipano in uguale misura del ciclo di metamorfosi universale: l’unica cosa che l’uomo può fare è cercare di comprendere questa grande armonia e trovare pace.

In verità credo che esista un unico[6] pensatore “cristiano” vicino alla concezione taoista della natura: Giordano Bruno, che infatti fu bruciato come eretico. Sosteneva che per ottenere una reale conoscenza della natura l’approccio aristotelico-razionale fosse fondamentalmente sbagliato: lo studioso che voglia penetrare a fondo i misteri deve essere dotato di eroico furore ed abbandonarsi a forze astratte che lo trasformeranno dal profondo, facendolo diventare la natura stessa e quindi anche dio (poiché identificava i due concetti: “deus sive natura”). Per meglio spiegare il concetto, Giordano Bruno pone come esempio il mito di Atteone: questo cacciatore un giorno vide la dea Diana nuda e per punizione fu trasformato in un cervo che i suoi stessi cani sbranarono. Allo stesso modo colui che scopre veramente la natura si trasforma in essa ed entra nel suo ciclo.

Lo Zen insiste in particolar modo sull’importanza del superamento di ogni dualismo, poiché nel momento in cui davvero riusciremo a realizzare questo dentro di noi, all’improvviso arriverà l’illuminazione.

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[1] E. P. Lamanna, F. Adorno Dizionario dei termini filosofici ed. Le Monnier, Firenze 1960. Pag. 34.

[2] Walter Brugger Dizionario di filosofia ed. Marietti, Torino 1964. Pag. 158.

[3] Facoltà di intuizione sia intellettuale che spirituale che tutti gli esseri possiedono a livello inconscio. Per raggiungere l’illuminazione essa deve essere destata tramite la meditazione.

[4] Traduzione a cura di Theodor Entai Rosenberg e Donatella de Col, presa dal sito internet del centro Zen di Milano sanshin = spirito della montagna (www.geocities.com/Zen-milano/Zen ). Nel sito si trova questa nota alla traduzione: “L’adattamento ritmico che qui si propone è maturato attraverso il confronto di diverse traduzioni, inglesi, francesi e italiane, dell’originale testo sanscrito e della più tarda trasposizione giapponese. Non è nato tuttavia con intenti di tipo filologico, sforzandosi piuttosto di restituire in modo vivo lo spirito del testo. Definitosi a poco a poco, attraverso uno studio attento e col sostegno di una pratica meditativa costante, esso tenta di trascendere l’intrinseco paradosso del linguaggio nell’unica via, forse, possibile: esprimere la realtà di ciò che è indicibile attraverso il potere evocativo della parola poetica.”

[5] Cfr. James Cahill The lyric journey , ed. Harvard university press 1996. Come vedremo meglio nel capitolo sesto (cfr nota num.9 cap.6 ) l’influenza dello Zen era molto sentita, soprattutto nelle arti figurative, nel periodo dei Song Meridionali.

[6] Ovviamente non è l’unico in assoluto, ma credo sia stato uno dei primi: a lui si rifaranno ad esempio Spinoza e Schelling.


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