L’illuminazione è uno dei concetti chiave dello Zen, che si è sviluppato proprio a partire dall’approfondimento del fatto che una percezione intellettuale della catena di causalità, benché perfetta, non sarà mai sufficiente per raggiungere lo stato di Buddha, e che occorre invece necessariamente un passo ulteriore, che non sia di pertinenza della mera logica, che non abbia nulla a che fare con la completezza analitica, poiché essendo la ragione solo uno strumento imperfetto e finito, come gli altri in mano all’uomo, non potrebbe in alcun modo da sola giungere alla verità [1].
Difficile parlare di uno stadio spirituale senza averlo raggiunto, soprattutto quando si tratta di un caso come lo Zen, in cui le parole perdono ogni significato e valore, e non è concesso a chi non sia un adepto, seguito personalmente da un maestro, comprendere realmente fino in fondo la via. Proverò a spiegare quello che si riesce a capire leggendo libri sull’argomento.
Il satori (risveglio, illuminazione) è il risultato di una intuizione involontaria ed inaspettata, talmente al di fuori del nostro modo di utilizzare la mente da essere inspiegabile con discorsi; infatti deve essere vissuto in prima persona, è un’esperienza così improvvisa e profonda da non poter essere sperimentata da chi non stia seguendo un preciso itinerario spirituale sotto la guida di un maestro, né compresa a fondo da chi non l’abbia raggiunta. Semplicemente avviene che ad un certo punto, senza che uno lo desideri o si accorga di come, tutti gli intricati fili delle sue meditazioni ed esperienze si ricompongono in un’unica matassa, pronta per essere dipanata con facilità.
Si tratta di una comprensione intuitiva della natura, del raggiungimento del vuoto assoluto che, anche se avviene in modo assolutamente fulmineo, non si esaurisce in quell’istante ma renderà visibile agli occhi dell’adepto un mondo nuovo che prima non poteva percepire: è un vero e proprio risveglio ad una nuova vita, anche perché una delle caratteristiche principali dello Zen rispetto ad altre correnti del Buddhismo è proprio il suo essere attivo nella vita reale[2]. Forse, nel corso della storia del Giappone, i monaci Zen hanno utilizzato questa assoluta necessità di intervenire attivamente all’interno della società anche per ottenere potere economico e politico (vedi capitoli quattro e cinque), ma credo che questo non tolga nulla alla profondità ed al valore filosofico della loro posizione.
Bisogna riuscire a restare umani pur essendo neutrali nei confronti dell’esistenza: raggiungere l’illuminazione è come tornare finalmente a casa dopo un lunghissimo viaggio, quando ciò che ci circonda è sempre uguale ma poiché noi siamo cambiati niente potrà più essere come prima [3] .
Per un monaco Zen non avrebbe nessun senso raggiungere la pace spirituale e la visione del tutto per poi tenere per sé soltanto questo stato di grazia e trascorrere il resto della vita in meditazione chiuso e protetto tra le mura del suo monastero: è necessario uscire fuori, tornare al mondo reale poiché questa è la nostra casa, perché siamo uomini, esseri finiti ed immersi nel karma, e soltanto agendo da persone illuminate all’interno del mondo del samsara, cercando di testimoniare a tutti la verità ed insegnando la via, sarà possibile raggiungere il nirvana in questa vita.
Anche il Buddha fu spinto ad uscire dallo stadio contemplativo “sagaramudra-samadhi”, in cui tutto l’universo si rifletteva nella sua coscienza come la luna proietta la sua immagine sull’oceano, spinto dall’amore e dalla compassione verso gli altri uomini [4]: il satori quindi, che qui compare come l’ultimo punto della via dello Zen, è in realtà il primo, l’inizio della vera vita.
L’uomo comune, che non si pone domande esistenziali e non coltiva il proprio spirito, conduce una vita eccentrica rispetto a quella della natura: noi tutti in realtà siamo al di fuori del centro dell’essere poiché siamo liberi, se lo vogliamo, di vivere in funzione di noi stessi solamente [5]; chi scopre che questa condotta non lo riesce a soddisfare pienamente, inizia a cercare un senso della vita che riesca a pacificare e riempire l’esistenza come uomini su questa terra.
Nel corso della storia ci siamo inventati infinite strade per soddisfare il nostro spirito, ed ora grazie alla globalizzazione ne conosciamo abbastanza affinché ognuno possa scegliere quella più adatta per sé: si desidera seguire la via dello Zen e diventare illuminati per poter raggiungere la condizione naturale di “candore esistenziale ignaro di diritti”[6] , e per poter fare questo occorre che il nostro essere uomini subisca la radicale trasformazione della rinuncia al “sé”. Chiaramente, poiché il punto di partenza inevitabilmente è il “sé”, potremo raggiungere solo il fondo di esso senza poterlo eliminare totalmente; ma una sua reale conoscenza illuminata (cioè intuitiva) è strumento sufficiente per farci con certezza sapere che non siamo diversi da tutto ciò che è visibile ed invisibile e che non può esistere alcun dualismo o separazione poiché soltanto il vuoto, il non-essere è il fondamento di tutte le cose [7].
Per ottenere il satori non occorrono né ragione né volontà: dicono sia come quando, smettendo di pensarci, affiora alla mente qualcosa che avevamo dimenticato ed improvvisamente riusciamo a ricordare[8] .
Cfr. D. T. Suzuki Saggi sul Buddhismo Zen, cit. Volume secondo, capitolo secondo.
Cfr. Joseph D. Parker Zen buddhist landscape arts of early Muromachi Japan ed. State University of New York, 1999 Albany. Capitolo terzo.
Cfr. D. T. Suzuki Saggi sul Buddhismo Zen, cit. Volume primo, capitolo terzo, paragrafo sesto.
Ibid., D. T. Suzuki, Volume primo, pag. 79.
Cfr. Eugen Herrigel La via dello Zen , ed. Mediterranee, Roma 1993. Capitolo secondo.
ibidem, pag. 16 “Per il buddhista Zen tutto ciò che esiste vive fuori dell’uomo; animali e piante, pietre e terra, aria, fuoco ed acqua vivono ignari di diritti dal centro dell’essere senza averlo abbandonato e senza poterlo abbandonare. L’uomo che, smarrito e sconcertato, voglia raggiungere la sicurezza ed il candore esistenziale, che quelli esibiscono in maniera tanto convincente perché sono profondamente ignari, deve sottoporsi ad una trasformazione radicale. (…) Deve diventare non come i fanciulli, ma come la foresta e la roccia, come il fiore ed il frutto, come il temporale e l’uragano. Nello Zen, unione significa ritorno a casa, ripristino di un originario stato perduto.”
Cfr. D. T. Suzuki Saggi sul Buddhismo Zen, cit. Volume secondo, capitolo primo