Zen e paesaggio

Innanzitutto possiamo dire, in generale, che il mondo della natura è per convenzione in tutto l’Oriente, molto più che in Occidente, puro e spirituale, legato alla religione interiore e al trascendente. Non solo: sia il mondo che ci circonda sia l’arte sono forme momentaneamente assunte dal senza forma, che noi possiamo contemplare nei loro mutamenti e che contengono il fascino particolare di essere espressioni della verità ultima.

In particolare in Giappone, dove lo Zen diventò tutt’uno con la natura degli abitanti del luogo fino ad impregnarne ogni aspetto, vediamo come l’importanza della meditazione sulla natura si sia innestata in una civiltà che già spontaneamente la venerava e rispettava in ogni sua espressione[1]: ciò che nacque da questo connubio di predisposizione e meditazione è un sentimento tipicamente giapponese che uno straniero forse non riuscirà mai a penetrare in tutta la sua profondità.

Oltre a queste ragioni culturali ne esistono anche alcune di carattere filosofico-estetico: abbiamo già visto (capitolo primo) che una pittura di paesaggio aiuta chi la contempla a dimenticarsi di sé stesso per entrare in un fluire cosmico in cui il nostro io si dissolve. Come avviene ciò? Ad operare questo miracolo contribuiscono per la maggior parte alcune caratteristiche intrinseche al soggetto che ci aiutano in questa meditazione, come ad esempio l’abitabilità di un paesaggio che ci proietta direttamente al suo interno; il mutare delle quattro stagioni, che è la rivelazione della vita in movimento, delle trasformazioni di un sistema ciclico di opposizioni e corrispondenze; e poi ancora la presenza del vago, del vuoto, di mille punti di vista che comunicano inesauribile diversità e poi il fatto che la natura è la nostra dimensione vitale essenziale elementare, e per questo ci affascina sempre in modo costante.

Secondo Joseph D. Parker[2] ci sono però, andando oltre, anche due sensazioni tipicamente Zen che aumentano il valore di questo soggetto d’arte: l’illusione e la gioia.

Mentre, per il Buddhismo in generale, la rappresentazione spirituale di un paesaggio è solo un esempio della vitalità della natura e dell’uomo immerso in modo assolutamente non distinto nel fluire dell’universo, per lo Zen è un perfetto oggetto di arte e meditazione anche perché, raffigurando il carattere mutevole ed illusorio della realtà convenzionale, lascia nell’animo un senso profondo di gioia e libertà.

Poiché ciò che bisogna rendere sulla carta non è una mimesi della realtà ma la sua pulsazione, non esistono paesaggi dal vero né ricordi precisi di essi, al massimo possono esistere paesaggi formati da elementi presi da diversi ricordi: ciò che si dipinge è dunque uno scenario interiore che non esiste in nessun luogo, la proiezione soggettiva di un mondo non reale, un’illusione. Per un adepto Zen questo carattere illusorio dell’arte è qualcosa di più: l’irrealtà evidente di un paesaggio dipinto si sovrappone alla illusione non a tutti evidente del mondo reale, e solo chi possiede l’illuminazione sa perfettamente che tutto è illusione e vuoto, e non è affatto spaventato da questa caratteristica del mondo che lo circonda, ma prova piuttosto una gioia profonda nello spaziare libero al di fuori di ogni costruzione convenzionale, nel poter vagare in ogni luogo reale ed irreale, vicino o lontano, del paesaggio attorno a lui e dello sfondo naturale che corrisponde al suo stato mentale.

Per descrivere questa sensazione lo Zen utilizza l’espressionesamadhi della gioia”: si trova in questa condizione interiore chi ha raggiunto l’illuminazione e non riesce più a vedere alcun limite; come recita una bellissima poesia di Muso Soseki:

“Ogni problema, ogni angoscia

è scomparso dal mio petto

e io gioco pieno di gioia

lontano dal mondo.

Per un adepto Zen

non esistono limiti

il cielo blu dovrebbe vergognarsi

di essere così piccolo.” [3]

Considerare il mondo un’illusione non è un’invenzione dello Zen: il rifiuto del mondo reale in quanto illusorio è presente in diverse correnti di pensiero[4]. Originale Zen è piuttosto la reazione gioiosa a questa conoscenza, ed è tale perché, proprio grazie alla sua mutevolezza continua, questo mondo è manifestazione vivente della verità ultima e vivere serenamente all’interno di esso è l’unica cosa che l’uomo deve fare.

Secondo Joseph Parker queste due caratteristiche di illusione e gioia sono assolutamente originali dello Zen giapponese; ed egli dimostra, grazie ad alcuni documenti, che influenzarono notevolmente anche lo sviluppo della pittura di paesaggio ad inchiostro.

Durante il periodo Muromachi (1333-1568) infatti questo soggetto pittorico godette di vasta fortuna in tutte le possibili forme d’arte, dalla decorazione al ventaglio, dal paravento al rotolo sia orizzontale che verticale ecc…e questo avvenne sia su larga scala, sulla scia della più ampia diffusione della grande pittura cinese avvenuta ad opera degli efficienti intermediari Zen, sia a livello più intimo e privato, all’interno dei templi e dei circoli culturali, grazie alle implicazioni del paesaggio con la spiritualità Zen.. I monaci di questa setta si erano organizzati costituendo le “cinque montagne”, cioè un sistema di templi, che oltre ad essere centri religiosi erano anche i principali istituti culturali dell’epoca, capillarmente distribuiti un po’ ovunque in Giappone. Ovviamente nella sola Kyoto ve ne erano cinque principali e sei minori, e diventarono in breve tempo così importanti da attirare un gran numero di persone, anche perché una buona parte dell’iter di un monaco era costituita da spostamenti all’interno del Giappone, oltre che, se erano fortunati, da almeno un viaggio in Cina. Conseguenza di questo fu che i templi si ingrandirono, aggiungendo agli edifici principali delle dependences secondarie. In principio queste erano semplici tatchu, cioè monumenti funerari dei maestri di cui l’allievo maggiore si prendeva cura, ma col tempo diventarono veri e propri edifici di studio, svago ed aggregazione per gruppi di monaci.

Questo sviluppo istituzionale e sociale fu fondamentale come creazione di un luogo fisico per la nascita di circoli culturali i cui membri, ad imitazione della generazione dei Song cinesi[5], si radunavano per passare il poco tempo libero discorrendo, ed in occasioni particolari (partenza o arrivo di amici, shikai cioè agone poetico, occasioni festive del calendario del monastero…) realizzando prodotti culturali come poesie o pitture.

Interessante è soprattutto la realizzazione di molti shigajiku, opera particolarissima in quanto si tratta di un rotolo che integra poesia, pittura, prosa e calligrafia: esso veniva realizzato a più mani dai presenti e a volte richiesto di essere completato, anche in seguito, ora della pittura di un artista di professione (molto spesso anch’egli amico), ora del commento di qualche illustre assente. La cosa interessante è che il soggetto raffigurato negli shigajiku è quasi sempre un paesaggio. Questo proprio perché era il simbolo della libertà interiore dell’illuminato.

Per fare un altro esempio dell’ importanza del paesaggio, basta dire che uno dei temi dominanti nelle poesie, prose e componimenti vari dei monaci Zen di questo periodo era quello dell’ “eremita a corte”. Questo ideale nacque nella Cina del 300 d.c., durante un periodo di confusione politica conseguente alla caduta degli Han , quando abbandonare il proprio posto di funzionari per cercare l’eremitaggio significava essere uccisi. Allora si fece necessario riuscire a combinare l’impegno secolare con la libertà spirituale e nacque l’ideale del saggio la cui mente sembra “essere in una foresta di montagna” anche se si trova impegnato nel governo. Del resto questa immagine non ebbe grande fortuna in Cina, dove quando si parla di eremiti si fa sempre riferimento ai grandi reclusi confuciani o taoisti, che cercano la compagnia della natura per protestare contro o negare la società in cui vivevano; oppure agli eremiti buddhisti, che cercano nei monti solo pace e silenzio.

Immergendo tutto nella non dualità lo Zen elimina la distinzione tra sacro e profano. Così, l’espressione “eremita a corte” diventa un ossimoro in perfetto stile paradossale Zen, che assume un profondo significato per i monaci in quanto applicazione concreta del non-dualismo alla loro vita quotidiana: essi devono essere attivi all’interno della società umana senza mai rinunciare di vagare liberi all’interno del pacifico paesaggio naturale del loro spirito. Ancora una volta il paesaggio assume significati al di là di ciò che possiamo semplicemente vedere.

“Tramite i temi buddhisti di gioia ed illusione i monaci giapponesi delle ‘cinque montagne’ svilupparono un diverso modo di vedere le arti di paesaggio. In quanto luogo in cui vagare liberi da ogni limite in grazia dell’illuminazione, essi leggevano il paesaggio come uno stato mentale gioioso e profondamente religioso, accessibile a tutti ma percepito solo da chi ha realizzato lo Zen dentro di sé. Secondo loro, con il suo ciclo delle quattro stagioni e lo scorrere dei ruscelli, il mondo della natura ben rappresentava le mutevoli, incredibili e perfino paradossali caratteristiche dell’esistenza sensibile nell’ottica buddhista, e per questo si trattava di un soggetto ideale per la funzione euristica[6] dell’arte buddhista. Mentre i due temi in sé non sono certo nuovi, la visione del paesaggio elaborata da questi monaci Zen è probabilmente il loro più originale contributo alla storia religiosa e culturale dell’estremo Oriente.”[7].

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[1] Lo “Shinto”, religione autoctona del Giappone, ruota intorno all’idea che vi sia un’armonia profonda tra gli esseri umani, la natura e le numerose divinità che popolano l’universo. Queste, chiamate kami , si identificano con parti della natura (montagne, animali, ruscelli..), personaggi storici ed antenati.

[2] Joseph D. Parker Zen buddhist landscape arts of early Muromachi Japan, cit.

[3] (1275-1351) maestro Zen e poeta, poesia cit. in Massimo Morello Lo Zen e l’arte del viaggio, ed. Idea libri, Rimini, 2002.

[4] “Maya è una delle parole più importanti della filosofia indiana, sia indù che buddhista. Infatti, il mondo multiforme dei fatti e degli eventi viene chiamato maya, comunemente inteso come un’illusione che vela la realtà sottostante di Brahman. (…) L’atto di classificare è precisamente maya. La parola è derivata dalla radice sanscrita matr, = misurare, formare, costruire o progettare. (…) Dire, perciò, che il mondo dei fatti e degli eventi è maya equivale a dire che i fatti e gli eventi sono termini di misurazione piuttosto che realtà naturali.” Alan W. Watts La via dello Zen, cit.

[5] Artisti e letterati che vissero sotto la dinastia dei Song Meridionali (1127-1279).

[6] Euristico = apprendimento per scoperta ed intuizione, non empirico.

[7] Joseph D. Parker Zen buddhist landscape arts of early Muromachi Japan, cit. Pag. 207.


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