Scelta del formato

Il makimono [1] consente all’artista di realizzare “una rappresentazione continua come una sinfonia: impresa titanica per il compositore quanto esperienza assolutamente meravigliosa per chi ascolta grazie all’effetto cumulativo. Il rotolo, difficilissimo per il pittore, è il mezzo più efficace per dimostrare la sua abilità. (…) Questo formato ci rivela il genio di Sesshu poiché il vero miracolo delle sue opere sta nella composizione: la continua espansione di un rotolo necessita di tutta l’abilità possibile affinché dovunque l’occhio si posi assista ad una veduta diversa e finemente bilanciata.[2]

Nei secoli dall’ XI al XIV in Giappone, quando l’influenza della tradizione cinese unita all’emergere del gusto nazionale[3] aveva dato vita alla moda degli emaki[4], il rotolo orizzontale era uno dei supporti artistici più diffusi; all’epoca di Sesshu invece questo formato era già stato soppiantato dal più semplice kakemono, il rotolo verticale che, come dice il nome stesso[5], era abbastanza piccolo da poter essere appeso alla parete. Durante la sua carriera Sesshu dipinse ben tre makimono di cui quello che mi accingo a descrivere è il più lungo: la prima domanda che dobbiamo porci quindi è perchè Sesshu decise di cimentarsi in queste imprese vista la rarità di quel supporto nel XV sec.

In generale si può dire che ci sono due motivazioni principali valide per tutti e tre i rotoli, e sono: da una parte il desiderio di dimostrare con i fatti la propria abilità; dall’altra quello di ricollegarsi ad un’antica e significativa tradizione. In primo luogo sicuramente Sesshu, che realizzò tutti e tre i suoi makimono quando era giunto ad una certa maturità artistica, voleva dimostrare a sé stesso e agli altri (anche se probabilmente non era necessario) di essere un artista completo ed un maestro indiscusso; per questo decise di cimentarsi in questo genere pittorico, che è il più complesso poiché richiede grande abilità organizzativa, perfetta visione spirituale del progetto prima di realizzarlo, padronanza del pennello ed assoluta precisione e rapidità dei movimenti. In secondo luogo bisogna tenere presente la particolare venerazione che tutte le popolazioni orientali hanno dei loro antenati e considerare che in questo caso il rotolo dipinto assume un doppio valore, sia perché proviene dalla tradizione cinese dei Song meridionali, di cui Sesshu aveva grande rispetto per motivi culturali e religiosi[6], sia, però, anche perché questo formato era stato il mezzo con cui gli artisti giapponesi nell’XI sec. avevano iniziato ad affermare il loro personale stile in pittura[7], e sicuramente anche Sesshu, nonostante realizzasse opere kanga[8], come tutti i nipponici era orgoglioso della sua nazione e legato a storia e tradizioni.

Queste sono due motivazioni molto generiche; per quanto riguarda in modo più specifico il “rotolo lungo delle quattro stagioni” ne esistono anche altre che possiamo desumere dalla storia dell’opera. Poiché questo rotolo, che finì nelle mani di Togan[9], continuatore di Sesshu e fondatore della scuola Unkoku, rappresentò per i suoi successori un vero e proprio libro di testo dello stile shin[10], a posteriori potremmo dire che quest’opera sia stata realizzata dal maestro con intento didattico[11]. Sinceramente non credo sia andata così, dal momento che ci troviamo di fronte ad un grande capolavoro, che un simile intento come unico scopo banalizzerebbe, diminuendone valore ed importanza. Un’altra possibile motivazione storica, che neppure ritengo sufficiente per gli stessi motivi della precedente, potrebbe essere il fatto che Sesshu, popolare presso i suoi contemporanei tra le altre cose anche perché era tra i pochi ad essersi recato in Cina, desiderasse, in quanto artista, registrare paesaggi, spirito e stile di quel paese in un’opera narrativa, da mostrare per accompagnare il racconto con immagini, a tutti coloro che andavano a chiedergli della sua esperienza di viaggio[12].

Leggendo il rotolo con più attenzione scopriamo che esistono ragioni più profonde: anche se noi vediamo solo un paesaggio in stile cinese, in realtà si tratta di un’opera altamente spirituale, una sorta di preghiera destinata come offerta al tempio Ruriko-ji di Yamaguchi [13]. Come abbiamo visto nel capitolo sullo Zen e la pittura di paesaggio, il mondo naturale è un soggetto profondamente religioso per tutti gli adepti di questa setta e possiede significati che probabilmente noi profani non possiamo neanche immaginare. Analizzando poi la scritta che l’autore pone in chiusura del rotolo , troviamo un paio di indizi che ci svelano come la sacralità di questa opera d’arte fosse indicata chiaramente da Sesshu a tutti i suoi contemporanei. Egli scrive:

nel diciottesimo anno di Bunmei[14]

in un pacifico giorno di Kahei[15]

l’anziano Toyo Sesshu

che occupò la prima sedia al tempio Tendo[16]

dipinse[17] , nel suo sessantasettesimo anno di età.

La prima cosa che dobbiamo considerare è il fatto che Sesshu scelga proprio il termine hitsu-ju, che era usato per indicare che si stava copiando un sutra o una preghiera buddhista, e non un’altra parola che significasse semplicemente “dipingere”[18]. Questo già indica che ci troviamo di fronte ad un oggetto sacro, ma c’è anche un altro indizio fondamentale che avvalora questa ipotesi, cioè la datazione precisa: dal momento che molto raramente Sesshu in persona ci fornisce per le sue opere una collocazione temporale, siamo portati a pensare che l’anno Bunmei diciotto fosse particolarmente importante sia per l’autore che per la famiglia Ouchi presso cui egli si trovava (anche se non rimase sempre a Yamaguchi) già da circa trent’anni[19]. Facendo un tuffo nel passato scopriamo che effettivamente la storia ci dà ragione. Quando a Kyoto scoppiò la guerra Onin[20] molti monaci ed artisti si rifugiarono nelle più tranquille province, dove godettero della protezione dei signori locali che desideravano aumentare il proprio prestigio personale facendo fiorire i loro centri dal punto di vista culturale. Finita la guerra non tutti fecero ritorno nella capitale e così anche le province, che nel frattempo erano diventate molto più potenti di Kyoto per quanto riguardava il settore economico, divennero importanti poli religiosi, politici e di aggregazione e produzione artistica, acquistando così sempre maggiore considerazione a livello nazionale. Alcuni documenti dell’epoca[21] ci testimoniano che all’interno di questa temperie culturale, proprio nel 1486, la famiglia Ouchi di Yamaguchi ricevette importanti riconoscimenti da Kyoto a livello religioso che resero necessaria una risistemazione del rituale, l’ampliamento del tempio Ruriko-ji[22] ed una riorganizzazione di tutto il sistema in generale: per questo giunsero appositamente dalla capitale alcune personalità eminenti. Ovviamente questi riconoscimenti religiosi erano il riflesso di una crescita di importanza della famiglia dal punto di vista politico; ce lo testimonia anche il fatto che, sempre in quell’anno, vennero celebrati riti religiosi in onore del figlio primogenito del feudatario Ouchi e che proprio allora si fece scrivere per la prima volta l’albero genealogico della famiglia. Tra tutti questi importanti avvenimenti occorsi quell’anno nella città di Yamaguchi, ce n’è anche uno che riguarda Sesshu in prima persona, e che forse più di tutti giustifica l’esigenza dell’artista di realizzare un’opera da donare come offerta al tempio. Infatti Masahiro Ouchi[23] decise proprio allora che, dopo tutto quello che aveva fatto per lui e per la sua città, era giunta per Sesshu l’età della pensione, non nel senso che doveva smettere di dipingere ma nel senso che non avrebbe più dovuto realizzare opere su commissione per sopravvivere: conferendogli con tutti gli onori un importante riconoscimento alla carriera gli concesse anche di restare per sempre nel padiglione Unkoku[24], continuando a mantenerlo dal punto di vista economico pur lasciandolo libero di dipingere tutto ciò che voleva senza alcun obbligo. È evidente che solo ad uno stimato maestro poteva essere data una tale opportunità, poiché il fatto che da questo momento in poi la sua personale creatività sarebbe servita da modello per generazioni di apprendisti significava un grandissimo onore per la società giapponese dell’epoca (e di tutti i tempi, anche di oggi). Per l’occasione un importante monaco Zen di Kyoto (Ryoan Keigo, che poi diventerà grande amico di Sesshu) che si trovava a Yamaguchi fu invitato ad iniziare a scrivere un diario, un memoriale dell’ Unkoku-an, documento fondamentale tutt’ora esistente.

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[1] Rotolo orizzontale.      

[2] John Carter Covell Under the seal of Sesshu, cit., pag. 65.

[3] Miyeko Murase L’arte del Giappone, cit. , pag. 117 ss. A partire dall’XI sec. i giapponesi iniziarono ad evolversi in modo autonomo dalla Cina grazie ad una presa di coscienza del valore della propria terra e delle tradizioni e culture autoctone. Inventarono una loro scrittura, chiamata kana che usarono come lingua quotidiana e per far nascere una letteratura nazionale. Anche se il cinese continuò per lunghissimo tempo ad essere la lingua ufficiale della politica e dell’economia, l’invenzione della scrittura sillabica giapponese ebbe un ruolo significativo per lo sviluppo artistico non solo in ambito letterario ma anche per quanto riguarda la poesia, la calligrafia e la pittura. Infatti si iniziarono a realizzare in questo periodo le prime pitture profane che vennero chiamate yamato-e (lett.= pittura giapponese) e si opponevano alle pitture kara-e (lett.= pittura Tang, cioè cinese). Lo stile yamato-e si applicava a scene e storie nazionali,che potevano essere semplicemente un paesaggio o una località pittoresca, casi in cui la caratteristica tipica giapponese era una grande attenzione e sensibilità per l’avvicendarsi delle quattro stagioni, oppure rievocazioni storiche, di costume o letterarie, casi in cui l’approccio nipponico si differenzia da quello cinese per il gusto della narrazione e l’attenzione alle vicende umane.

[4] Rotoli dipinti orizzontali narrativi, in cui spesso si alternano illustrazioni a porzioni di testo (ovviamente in scrittura kana).

[5] Lett. “cosa da appendere”

[6] In epoca Song, in Cina, lo Zen fiorisce, e pure la pittura di paesaggio grazie alla generazione di artisti letterati. “Dopo la persecuzione del Buddhismo cinese nell’845, lo Zen fu per qualche tempo non solo la forma prevalente di Buddhismo, ma ebbe anche il più notevole influsso spirituale sullo sviluppo della cultura cinese. Questo influsso raggiunse il culmine durante la dinastia Song meridionale (1227-1279) e durante questo periodo i monasteri Zen divennero centri direttivi della cultura cinese. Eruditi laici, sia confuciani che taoisti, li frequentavano per periodi di studio, ed i monaci Zen a loro volta prendevano dimestichezza con gli studi classici della Cina. (…) Il risultato fu una straordinaria, vicendevole fecondazione di ricerche filosofiche, erudite, politiche ed artistiche, nelle quali il sentimento Zen e Taoista di naturalezza divenne la nota dominante. (…) Può darsi che il sumi-e (…) sia stato portato a compimento ai tempi remoti della dinastia Tang, da maestri quasi leggendari come Wu Daozi (700-760 circa) e Wang Wei (698-759 circa). Tuttavia l’autenticità delle opere loro attribuite è assai dubbia, quantunque si possano datare al nono secolo e comprendano un dipinto così tipicamente Zen come la cascata impressionistica attribuita a Wang Wei (…). La grande età formativa di questo stile fu indubbiamente la dinastia Song (959-1279), ed è rappresentata da pittori come Xia Gui, Ma Yuan, Mu Qi e Liang Kai. I maestri Song erano più che altro pittori di paesaggi, creatori di una tradizione di “pittura naturalista” che difficilmente è stata superata altrove nel mondo. Essa infatti ci manifesta la vita della natura –montagne, acque, nebbie, rocce, alberi e uccelli- com’è sentita dal Taoismo e dallo Zen. È un mondo a cui l’uomo appartiene ma che egli non domina; un mondo sufficiente a sé stesso, poiché non fu fatto per nessuno e non ha scopo in sé.” Alan W. Watts La via dello Zen, cit., pag. 189-190.

[7] Yamato-e, vedi nota num. 122

[8] In stile cinese

[9] Vedi capitolo sette

[10] Vedi capitolo cinque

[11] John Carter Covell Under the seal of Sesshu, cit., pag. 66; Shimao Arata Sesshu no “sansui chokan” fukei emaki no sekai de asobo!, ed. Shogakukan, Tokyo, 2001

[12]John Carter Covell “under the seal of Sesshu”, cit., pag.66; Shimao Arata Sesshu no “sansui chokan” fukei emaki no sekai de asobo!, cit.

[13]Per questa affermazione e tutte le seguenti “prove” vedi Shimao Arata Sesshu no “sansui chokan” fukei emaki no sekai de asobo!, cit.

[14]Si tratta del 1486 secondo l’antico calendario giapponese.

[15] Secondo l’antico calendario giapponese si tratta del dodicesimo mese dell’anno. Probabilmente occorse più di un solo giorno al maestro per completare l’opera, ma dicendo così sicuramente voleva sottolineare l’istantaneità necessaria per realizzare un’opera Zen.

[16]Titolo onorifico che gli era stato attribuito in Cina, vedi capitolo sulla vita di Sesshu.

[17] Hitsu-ju

[18] Cfr. Shimao Arata Sesshu no “sansui chokan” fukei emaki no sekai de asobo!, cit.

[19] Vedi capitolo cinque

[20] Vedi capitolo quattro

[21] Cfr. Shimao Arata Sesshu no “sansui chokan” fukei emaki no sekai de asobo!, cit.

[22] Tempio principale di Yamaguchi, dove nel 1442 il feudatario Ouchi aveva fatto costruire la bellissima pagoda a cinque piani che tutt’ora è il simbolo della città. Grazie a questa raffinatissima costruzione, annoverata tra le tre pagode più belle del Giappone, Yamaguchi iniziò ad essere chiamata “Kyoto dell’est”.

[23]Vedi capitolo cinque.
    
[24] Unkoku-an, casa situata in mezzo ai monti di Yamaguchi, dall’altra parte del fiume rispetto al tempio Ruriko-ji, dove Sesshu visse e lavorò dal 1473 alla sua morte nel 1506. Vedi capitolo sulla vita di Sesshu.


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